NESSUNO DEVE ESSERE SOLO versione 2
di Federica Gussago
di Federica Gussago
L'orfanotrofio era silenziosissimo. Nell'aria non
un solo ronzio o fruscio: tutta quella quiete era angosciante. Giada si strinse
più forte alla copertina che aveva portato con sé. Lei era una bambina di soli
dieci anni, con i capelli biondi, il corpo gracile, le guance scavate. Il suo
viso era pallido e smunto, senza colore. I suoi occhi azzurri erano spenti,
privi della vivacità tipica dell'infanzia.
Vagava per i corridoi dell'orfanotrofio, la sua
casa da ormai sette anni. Il motivo per cui viveva lì le era stato spiegato
più volte, ma ancora non riusciva a comprendere perché i suoi genitori avessero
deciso di intraprendere un viaggio senza ritorno e di lasciarla sola, affidata
alle cure di estranei. Quando aveva provato a chiederlo alla signorina
Bertelli, la direttrice, lei aveva risposto che il mondo va così e bisogna
abituarsi. Una risposta pessima da dare ad una bambina così piccola e ingenua.
Così, inevitabilmente, Giada aveva cominciato a pensare che la mamma e il papà
non le avessero mai voluto bene e che avessero voluto sbarazzare di lei.
Giada non era felice all'orfanotrofio, ma
d'altronde, nessun bambino lo era, per quanta attenzione ricevesse.
Quella notte non le riusciva proprio di
addormentarsi e così aveva preso a camminare per i corridoi bui dell'edificio.
Era in cerca di qualcuno che la confortasse, magari una delle ragazze più
grandi che le potesse leggere una fiaba, e girovagando senza meta alla ricerca
dell'ignoto Giada si era persa nel labirinto di stanze, porte e scalinate. Ora
le ombre della notte la impaurivano: l'unica luce presente era quella della
luna che filtrava dalle finestre.
Giada intravide un vaso di porcellana alto almeno
quanto lei e capì di trovarsi nell'ingresso e un desiderio istintivo e
irrefrenabile di uscire da quella porta la pervase. Era inverno inoltrato ed era
passato molto tempo dall'ultima volta che aveva camminato per le stradine di
Gozzano; ascoltò se stessa e seguì la sua idea folle di riassaporare la libertà
perduta anni prima.
Con la manina cercò le chiavi che erano sempre
appoggiate su una mensola bassa. Le trovò, le inserì nella toppa e girò tre
volte. Silenziosamente aprì la porta. Vide le strade innevate, i tetti
bianchi, le luci natalizie. Non c'era nessuno, tutto il paese dormiva. Prese a
scendere gli scalini di pietra, e solo allora si accorse del freddo gelido che
la circondava. Cominciò a correre per scaldarsi, dimenticando la porta
dell'orfanotrofio aperta.
Tutto intorno a lei era nuovo, diverso,
bellissimo, ma allo stesso tempo spaventoso. Non conosceva niente di quel mondo
inaspettato. E aveva freddo.
Si fermò davanti alla pasticceria Mazzetti. Mai
aveva visto o assaggiato prelibatezze simili a quelle in vetrina.
Fiocchi di neve candida cominciarono a cadere dal
cielo scuro. Lei sorrise e si sentì felice come non lo era stata mai. Era
libera, spensierata, non le importava nulla di ciò che le avrebbe detto la
Bertelli una volta tornata indietro.
Avvolta nella sua coperta, camminò per un'ora
intera senza fermarsi nè accorgersi che si stava allontanando troppo.
Non era abituata alle lunghe camminate e si
sentiva stanca. Si sedette sui gradini di una porta, in una delle vie buie che
aveva imboccato.
Il freddo le penetrava nelle ossa e cominciò a
pensare che non era stata una buona idea quella di scappare. Rimpianse il suo
lettino caldo.
Riprese a camminare, sfinita nella disperata
ricerca della sua origine.
Improvvisamente, intravide una piccola figura a
pochi passi da lei: era un piccolo cane, perso e infreddolito. Cercò di
chiamarlo e lui, con un'indicibile sensibilità, la seguì.
Ormai le gambe non la sostenevano più. Non si
sentiva più le mani, tanto erano intirizzite dal freddo. Tremava come una
foglia mentre il cane le camminava sempre più vicino. Lo strinse a sé
accarezzandolo e raccontandogli il suo desiderio di ritrovare un passato
nascosto.
Quell'animale abbandonato come lei
forse provava le sue stesse sensazioni.
Gli sussurrò, come se volesse rincuorarla: -Non
preoccuparti, ti tengo con me-. Giada non si era mai sentita responsabile di
un'altra vita. Era combattuta tra ritornare all'orfanatrofio e
allontanarsi per sempre.
Aveva bisogno di un rifugio caldo e sicuro per lei
e il cucciolo, ma non dell'orfanotrofio. Dopo il gesto che aveva compiuto non
l'avrebbero nemmeno fatta rimanere con gli altri bambini, perché il suo sarebbe
stato un cattivo esempio. Inoltre, nemmeno il cane sarebbe stato contento, non
gliel'avrebbero lasciato tenere. Lui aveva bisogno di Giada. E lei del
cagnolino.
Pensò che che non poteva
rassegnarsi: non sapeva per quale motivo mamma e papà l'avessero abbandonata,
ma, forse, se si fosse presentata a loro, l'avrebbero accettata e tenuta, per
essere finalmente una famiglia. A quell'idea, le mani di Giada fremettero per
l'emozione. Per un attimo dimenticò il freddo, la stanchezza, la paura. Il solo
pensiero di una vita felice la rendeva entusiasta.
Riprese a correre, il cane stretto al petto.
Superò tante file di case, alla ricerca di un segno, qualcosa che le
trasmettesse un'emozione profonda di appartenenza.
Le abitazioni erano tutte uguali e con il buio si
intravedeva poco. Giada non riusciva a leggere neanche un nome sui citofoni. Condomini
e villette si susseguivano ma in nessuna riuscì a trovare la sensazione
sperata. Il cagnolino, che adesso le camminava a fianco, non emetteva alcun
suono.
Girarono a lungo, e Giada si stava arrendendo,
quando, all'improvviso, il cane si mise ad abbaiare forte. Erano di fronte ad
una casa imponente, gli addobbi natalizi la illuminavano e la rendevano
incantevole. Un giardino molto vasto la circondava e la bambina notò una
piccola cuccia per cani.
Il cucciolo continuava ad abbaiare senza sosta
finchè Giada cominciò a pensare che non fosse un caso. L'abitazione in realtà
non le ricordava nulla, ma cominciò a convincersi che quella un tempo fosse
stata la sua casa e che il cane glielo volesse far capire.
Lo prese in braccio e, raccolto tutto il coraggio,
suonò il campanello. Dovette ripetere il gesto parecchie volte prima che
qualcuno si decidesse ad aprire.
Arrivò un uomo corpulento dall'aria stanchissima e
adirata. Ci mise un po' prima di capire che a suonare era stata una bambina:
piccola, vestita di un logoro pigiama, era gracile e pallida.
Giada si lasciò scappare una parola che mai si
ricordava di aver pronunciato: -Papà-
L'uomo inclinò il capo da un lato rimandendo ad
osservare la bambina, cercando di capire. C’era un qualcosa in quella creatura,
così fragile. Un qualcosa che non riusciva a spiegarsi e che gli faceva passare
quella rabbia che aveva dentro per l’inaspettata sveglia notturna.
Solo allora una donna fece capolino dall'uscio.
Anche lei sembrava assonnata. Giada chiamò lei “mamma”.
-Io non sono la tua mamma- le disse. -Ma quello
che hai in braccio è il mio cane. Lo hai riportato da me! -. Il suo tono era
dolce, aveva gli occhi lucidi per la gioia di rivedere il suo cucciolo.
Si avvicinò al cancello con una sguardo protettivo
e aprì a Giada, che per paura non osava entrare. --come ti chiami piccolina? Cosa fai in giro tutta sola a
quest’ora della notte?-
Il cane alla vista della padrona si divincolò
dalla debole presa di Giada che era incantata ad osservare i minimi dettagli di
quelle due persone, così sconosciute ma allo tempo stesso con quell’aria così
familiare. Le sue gambe non la reggevano più in piedi, aveva freddo, era
sfinita. Sentiva le braccia tremare e la testa girare, ma non ascoltava i
segnali del suo corpo così come non ascoltava le domande della donna a pochi
passi da lei.
Forse il freddo, forse la stanchezza e la
debolezza. Sta di fatto che Giada perse i sensi e cadde ai piedi della donna.
L’uomo che fino ad allora era rimasto sulla porta corse verso di lei e la
raccolse prendendola in braccio, stringendola a lui e accorgendosi di quanto
fosse fredda. Si rivolse alla moglie mentre già si dirigeva in casa. –Vieni
portiamola dentro, prendile una coperta ed un cuscino.- La distesero con amore
sul divano e accessero il camino lì vicino così da scaldarla il più possible.
Nessuno poteva rimanere impassibile davanti a quel
visino giovane ma segnato da un passato indelebile.
Quando Giada riaprì gli occhi vide l’uomo e la
donna sulle poltrone che dormivano. Non riusciva a capire dove fosse ma non
voleva svegliarli. Era troppo stanca per
alzarsi e decise di rimanere lì. “Non so dove sono, ma sono comoda” pensò.
Sicuramente era una buona alternativa a quel freddo che penetrava le ossa.
Passò la notte e venne il
mattino e raccontare cosa successe in quella casa quando tutti si
svegliarono sarebbe troppo lungo. Possiamo dire però che nel frattempo l’orfanatrofio aveva già iniziato le ricerche di Giada, dopo non averla
vista all’appello mattutino prima della colazione.
La notizia raggiunse anche i
coniugi Valsesia (così si chiamavano le due anime buone che avevano accudito
Giada durante la notte) quando la
preside Bertalli, nel suo giro disperato alla ricerca della bambina raggiunse
la loro abitazione. La vista di Giada la rasserenò, i coniugi raccontarono
l’accaduto e appresero la storia di quella bambina. Rimasero così colpiti che
vollero iniziare subito le pratiche per l’adozione.
Giada ricevette il regalo di Natale più grande che
potessero mai farle: una famiglia. Perchè nessuno merita di rimanere solo.
Nessun commento:
Posta un commento