LA
MADONNA DEGLI ANGELI
di
Roberta Travaglini
ZIO,
ZIOOOO. Siamo arrivate!
Sembrava
un grido scaramantico alla conquista di un assurdo salvacondotto per accedere
ad un albero di pesche, il cui fascino era nascosto nella proibizione del furto
dei suoi frutti.
Ora
un gruppo di giovani in gita accompagnate dalle due suore del paese che si
avventura nell'impresa, rende il tutto ancor più emozionante. E quella gita, il
due di agosto, in occasione della Madonna degli Angeli, ormai da almeno un paio
di anni aveva nel suo programma anche la sosta ardita nel campo altrui. Faceva
parte di un gioco che sarebbe difficile definire del tutto scorretto, in fondo
lo zio era avvisato del nostro arrivo e avrebbe potuto in qualche modo
provvedere a scacciarci.
Non
è mai successo in realtà. A distanza di anni viene da pensare che il
proprietario potesse avere una specie di tacito accordo con le suore, ma almeno
per quanto mi riguarda direi di no, o che semplicemente preferisse riposare a
quell'ora, oppure che, ultima supposizione, fosse piacevolmente divertito dalla
situazione.
Quelle
pesche erano particolarmente gustose, calde del sole della giornata perché la
sosta all'albero era prevista al rientro, nel tardo pomeriggio, più o meno a
metà strada tra il convento del Monte Mesma e Invorio dove alcune ragazze
acceleravano il passo improvvisamente, convinte di non essere viste, per
oltrepassare di nascosto il recinto della proprietà dopo quel richiamo, che una
volta ripetuto e rimasto senza risposta, regalava un po' di tranquillità
all'azione.
Era
invece regolare la sosta dall'anziana signora che poco più in là, ma
all'andata, ci riforniva con gioia di qualche pera appena colta. L'albero,
piuttosto vecchio, dominava nella piccola corte dove razzolavano libere le
galline.
Negli
anni la donna, assetata di chiacchiere, ci aveva raccontato a puntate la sua
vita, di quando era morto il marito ancora giovane, di come lei avesse dovuto provvedere
da sola all'unico figlio maschio, di quando Matteo, così si chiamava il figlio,
si era sposato ed era andato a vivere in città, lasciandole un po' di
solitudine. Ma era un bravo ragazzo e la raggiungeva sempre appena possibile,
con o senza famiglia. Le nipoti erano, invece, dei veri terremoti, d'altronde
la campagna era sempre una scoperta per loro.
La
casa, a differenza di quelle a due piani con ringhiera e pergolato di vigna,
tipiche della nostra campagna, era incredibilmente piccola. Un solo piano
quello delle camere da letto e a piano terra una cucina piuttosto ampia con a
fianco una stanza dispensa dove campeggiavano ancora un paio di damigiane ed un
tino.
Oltre
il cortile si estendeva la proprietà adibita a frutteto e ad orto che
sicuramente qualcun altro gestiva insieme alla donna.
In
realtà il pergolato di vigna non mancava, ma costituiva una specie di gazebo in
un angolo, appena più in là dell'albero di pere dove un tavolo in cemento e due
panche di legno ci accoglievano mentre le ragazze scorrazzavano ovunque.
Da
ormai qualche anno ci si avviava al mattino, tempo permettendo, con
l’entusiasmo del gruppo e la spensieratezza delle semplici cose di allora:
chiacchiere e risate sarebbero state le uniche complici nella novità della
giornata.
Si
partiva da Invorio, dalla frazione della Mornerona con il consueto pranzo al
sacco e la borraccia da riempire alla fontanella prossima all’imbocco del
sentiero che costeggiava l’area paludosa della Torba e che conduceva alla
salita per Bolzano Novarese. Di quella palude in cui si pescavano le carpe e
l'acqua era ancora visibile, restano ora solo alcuni segnali, le canne e l'erba
alta e sfilacciata che accorpa il disordine del paesaggio che muta nel tempo.
Si
partiva, dopo qualche schizzo di troppo alla fontana e i primi rimproveri di
rito.
Il
sentiero, all’ombra di robinie, castagni e noccioli, non era dei più luminosi,
ma consentiva di evitare la strada principale e di rimanere in piano.
Sul
ponte dell’Agogna, appena prima della salita era impossibile non fermarsi. Mi
divertivo pure io a gettar sassi a gara mentre le ragazze più grandi mi
facevano notare poco più in là il punto più profondo dove, dicevano, si può
anche nuotare. In effetti in estate frotte di giovani trascorrevano una vera e
propria stagione balneare sulle rive di quel torrente e soprattutto un po' più
a monte, dove l'acqua era più profonda in prossimità della centrale
idroelettrica.
Arrivati
a quel punto del cammino lo sguardo che si alzava dal ponte al momento di
ripartire ripeteva nella mia mente il pensiero di sempre. Come si poteva vivere
in quella casa triste e isolata, tra acqua e bosco poco più in là, senza il
sole che scalda l'inverno?
Poi
si saliva. A destra il vallone umido e in ombra. A sinistra il colle di
castagni ordinati come si conviene ad una selva che frutta.
Solo
al cimitero di Bolzano la strada spiana, il paesaggio si dilata ed inizia la
discesa verso il paese, ma a quel punto si poteva imboccare la scorciatoia,
tagliando a destra prima dei tornanti per la via che permetteva di arrivare in
minor tempo in prossimità dell’imbocco della Via Crucis che conduce al
convento.
A
volte mi capitava di lasciare per un attimo in sottofondo il vociare delle
ragazze per cogliere il sapore del bosco di castagni, almeno fino all’oratorio
di S. Elisabetta, meditando nella semplicità dei passi che procedevano
sull'acciottolato interrotto da sassi disposti per il lungo a formare dei
gradini.
C'è
la strada. Siamo quasi arrivate, suora.
E
così si attraversava la carrozzabile per proseguire lungo il sentiero che
costeggia il muro perimetrale del convento dal quale sporgono alberi secolari.
Nell’ultimo
tratto, prima di raggiungere il piazzale, comparivano invece le ultime stazioni
della Via Crucis che sale da Lortallo.
Non
si può sorvolare sulla differenza di stile delle cappelle, decisamente più
curate nell’architettura, negli affreschi, impreziosite alla base da versi in
rima.
C’era
sempre qualcuno che osservava più di altri. Una volta due ragazze mi
raggiunsero di corsa per farmi notare la diversa scrittura che caratterizzava i
versi pari da quelli dispari. Chissà perché?
In
effetti, chissà perché?
Poco
dopo si arrivava al piazzale dove un tiglio secolare, oggi sostituito da un
ulivo, dominava estremo contemplatore il paesaggio e come sempre si provava un
primo senso di fine. Metà gita era conclusa, metà di quella gita che qualche
ragazza avrebbe voluto non terminasse mai. Ma le emozioni si depositano e
rivivono in altro modo come del resto quel legno d'ulivo che nel chiostro,
oggi, parla in forma nuova.
Ci
si riuniva così al gruppo di persone che si sarebbe predisposto alla Messa e al
successivo riposo di un pranzo al sacco condiviso, non prima, però, di uno
sguardo al lago e nei giorni più limpidi al Monte Rosa che svetta.
Nei
pensieri che si affacciavano sull'acqua, tra i campanili della costa e l'isola
di S. Giulio, restavano ancora le ore del rientro a piedi e un assalto.
All'albero.
Ispirato ad un racconto materno
Ispirato ad un racconto materno
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