NESSUNO DEVE ESSERE SOLO
versione originale di
Martina Marotta
tradotto da Claudia
Locci, Paola Poletti, Alice Vercelli
L'orfanotrofio
era silenziosissimo. Nell'aria non un solo ronzio o fruscio: tutta quella quiete
era angosciante. Giada si strinse più forte alla copertina che aveva portato
con sé. Lei era una bambina di soli dieci anni, con i capelli biondi, il corpo
gracile, le guance scavate. Il suo viso era pallido e smunto, senza colore. I
suoi occhi azzurri erano spenti, privi della vivacità tipica dell'infanzia.
Vagava
per i corridoi dell'orfanotrofio, la sua casa da ormai sette anni. Il motivo
per cui viveva lì le era stato spiegato più volte, ma ancora non riusciva a
comprendere perché i suoi genitori avessero deciso di intraprendere un viaggio
senza ritorno e di lasciarla sola, affidata alle cure di estranei. Quando aveva
provato a chiederlo alla signorina Bertelli, la direttrice, lei aveva risposto
che il mondo va così e bisogna abituarsi. Una risposta pessima da dare ad una
bambina così piccola e ingenua. Così, inevitabilmente, Giada aveva cominciato a
pensare che la mamma e il papà non le avessero mai voluto bene e che avessero voluto sbarazzarsi di lei.
Giada
non era felice all'orfanotrofio, ma d'altronde, nessun bambino lo era per quanta attenzione ricevesse.
Quella
notte non le riusciva proprio di addormentarsi e così aveva preso a camminare
per i corridoi bui dell'edificio. Era in cerca di qualcuno che la confortasse,
magari una delle ragazze più grandi che le potesse leggere una fiaba.
Girovagando senza meta alla ricerca dell'ignoto Giada si era persa nel
labirinto di stanze, porte e scalinate. Ora le ombre della notte la
impaurivano: l'unica luce presente era quella della luna che filtrava dalle
finestre.
Giada
intravide un vaso di porcellana alto almeno quanto lei e capì di trovarsi
nell'ingresso e un desiderio, istintivo e irrefrenabile di uscire da quella
porta, la pervase. Era inverno inoltrato ed era passato molto tempo dall'ultima
volta che aveva camminato per le stradine di Gozzano; ascoltò se stessa e seguì
la sua idea folle di riassaporare la libertà perduta anni prima.
Con
la manina cercò le chiavi che erano sempre appoggiate su una mensola bassa. Le
trovò, le inserì nella toppa e girò tre volte. Silenziosamente aprì la
porta. Vide le strade innevate, i tetti bianchi, le luci natalizie. Non c'era
nessuno, tutto il paese dormiva. Prese a scendere gli scalini di pietra e solo
allora si accorse del freddo gelido che la circondava. Cominciò a correre per
scaldarsi, dimenticando la porta dell'orfanotrofio aperta.
Tutto
intorno a lei era nuovo, diverso, bellissimo, ma allo stesso tempo spaventoso.
Non conosceva niente di quel mondo inaspettato. E aveva freddo.
Si
fermò davanti alla pasticceria Mazzetti. Mai aveva visto o assaggiato
prelibatezze simili a quelle in vetrina.
Fiocchi
di neve candida cominciarono a cadere dal cielo scuro. Lei sorrise e si sentì
felice come non lo era stata mai. Era libera, spensierata, non le importava nulla
di ciò che le avrebbe detto la Bertelli una volta tornata indietro.
Avvolta
nella sua coperta, camminò per un'ora intera senza fermarsi nè accorgersi che
si stava allontanando troppo.
Non
era abituata alle lunghe camminate e si sentiva stanca. Si sedette sui gradini
di una porta, in una delle vie buie che aveva imboccato.
Il
freddo le penetrava nelle ossa e cominciò a pensare che non era stata una buona
idea quella di scappare. Rimpianse il suo lettino caldo.
Riprese
a camminare, sfinita nella disperata ricerca della sua origine.
Improvvisamente,
intravide una piccola figura a pochi passi da lei: era un piccolo cane, perso e
infreddolito. Cercò di chiamarlo e lui, con un'indicibile sensibilità, la
seguì.
Ormai
le gambe non la sostenevano più. Non si sentiva più le mani, tanto erano
intirizzite dal freddo. Tremava come una foglia mentre il cane le camminava
sempre più vicino. Lo strinse a sé accarezzandolo e raccontandogli il suo
desiderio di ritrovare un passato nascosto.
Quell'animale abbandonato come lei forse provava le sue stesse sensazioni.
Gli sussurrò, come se volesse rincuorarlo: -Non preoccuparti, ti tengo con me-.
Giada non si era mai sentita responsabile di un'altra vita. Era combattuta
tra ritornare all'orfanatrofio e allontanarsi per sempre.
Aveva
bisogno di un rifugio caldo e sicuro per lei e il cucciolo, ma non
dell'orfanotrofio. Dopo il gesto che aveva compiuto non l'avrebbero nemmeno
fatta rimanere con gli altri bambini, perché il suo sarebbe stato un cattivo esempio.
Inoltre, nemmeno il cane sarebbe stato contento, non gliel'avrebbero lasciato
tenere. Lui aveva bisogno di Giada. E lei del cagnolino.
Pensò che non poteva rassegnarsi: non sapeva per quale motivo mamma e papà
l'avessero abbandonata, ma, forse, se si fosse presentata a loro, l'avrebbero
accettata e tenuta, per essere finalmente una famiglia. A quell'idea, le mani
di Giada fremettero per l'emozione. Per un attimo dimenticò il freddo, la
stanchezza, la paura. Il solo pensiero di una vita felice la rendeva
entusiasta.
Riprese
a correre, il cane stretto al petto. Superò tante file di case, alla ricerca di
un segno, qualcosa che le trasmettesse un'emozione profonda di appartenenza.
Le
abitazioni erano tutte uguali e con il buio si intravedeva poco. Giada non
riusciva a leggere neanche un nome sui citofoni. Condomini e villette si
susseguivano ma in nessuna riuscì a trovare la sensazione sperata. Il
cagnolino, che adesso le camminava a fianco, non emetteva alcun suono.
Girarono
a lungo e Giada si stava arrendendo, quando, all'improvviso, il cane si mise ad
abbaiare forte. Erano di fronte ad una casa imponente, gli addobbi natalizi la
illuminavano e la rendevano incantevole. Un giardino molto vasto la circondava
e la bambina notò una piccola cuccia per cani.
Il
cucciolo continuava ad abbaiare senza sosta finchè Giada cominciò a pensare che
non fosse un caso. L'abitazione in realtà non le ricordava nulla, ma cominciò a
convincersi che quella un tempo fosse stata la sua casa e che il cane glielo
volesse far capire.
Lo
prese in braccio e, raccolto tutto il coraggio, suonò il campanello. Dovette
ripetere il gesto parecchie volte prima che qualcuno si decidesse ad aprire.
Arrivò
un uomo corpulento dall'aria stanchissima e adirata. Ci mise un po' prima di
capire che a suonare era stata una bambina: piccola, vestita di un logoro
pigiama, era gracile e pallida.
Giada
si lasciò scappare una parola che mai si ricordava di aver pronunciato: -Papà-
L'uomo
inclinò il capo da un lato. Scoppiò in una risata fragorosa. Solo allora una
donna fece capolino dall'uscio. Anche lei sembrava assonnata. Giada chiamò lei
- mamma.-
-Io
non sono la tua mamma- le disse. -Ma quello che hai in braccio è il mio cane.
Brava, lo hai riportato-. Il suo tono non era dolce, ma scontroso e sarcastico.
Si
avvicinò al cancello e si sporse in avanti. Allungò le braccia. Giada, ancora
scossa da ciò che aveva appena appreso, si vide togliere il cucciolo con cui
aveva stretto amicizia, che l'aveva fatta sentire sicura, a cui aveva sussurrato
le sue paure, dolori, segreti. In lacrime, corse via. Quanta delusione, quanto
rammarico!
Le
sue gambe la imploravano di fermarsi, ma lei non le ascoltava. Corse ancora,
finchè un suono la bloccò. Un rumore di passi piccoli e velocissimi, accompagnati
da un verso sommesso.
Era
il cagnolino; scappato nuovamente dalla casa dei padroni, l'aveva ritrovata.
Scodinzolando, le saltellò intorno. -Perché sei tornato?- chiese la piccola,
mentre nuove lacrime spuntavano dagli occhi blu. L'animale, tra un abbaiare e
l'altro, sembrò risponderle: -Perché ti voglio bene-.
Giada
riprese a camminare, con il cane che la seguiva, contento. Questa volta, però,
non potè più trascurare lo sfinimento che la opprimeva. Decise di accontentare
quei poveri piedini congelati.
Esausta,
si lasciò cadere in un angolo della strada. Non si mosse più. La stanchezza la
colse all'improvviso. Sia lei che il cagnolino non produssero più alcun suono.
Quest'ultimo le si posò in grembo.
Le
palpebre le si appesantirono. I suoi occhi si chiusero senza che lei potesse
impedirlo.
Il
giorno seguente, un uomo fu colpito dall'abbaiare di un cane e trovò il corpo
senza vita della bambina. Se ne era andata lasciandosi alle spalle tutto il
dolore provato negli anni, consapevole solo di aver rincorso un sogno e
aver conosciuto l'amicizia.
Ispirato alla esistenza
dell'Istituto San Giuseppe casa di accoglienza per bambini orfani e scuola di
avviamento anni '50. Dal racconto di A.Baldi
NOBODY SHOULD BE ALONE
The orphanage was silent. In the
air there was no hum or rustle: all that stillness was distressing. Giada
hugged the little blanket she had brought with her tighter. She was only ten
years old; she had blond hair, a weak physique, hollow cheeks. Her face was
pale and haggard, colourless. Her blue eyes were dull, without the typical
brightness of childhood.
She roamed the orphanage
corridors, her house for the past seven years. The reason why she lived there
had been explained to her many times, but still she couldn’t understand why her
parents had
decided to venture on a one-way
trip and to leave her there, entrusted to strangers. When she tried to ask Ms
Bertelli, the principal, she answered: «The world goes this way. We have to get
used to it». It was an awful answer to give to such a little and naïve child.
Unavoidably, Giada started thinking that her mom and dad had never loved her
and that they wanted to get rid of her.
Giada wasn’t happy at the
orphanage but, despite all the care they received, no child was.
That night she couldn’t fall
asleep at all, so she had begun to wander the dark corridors of the building. She
was seeking someone to comfort her; maybe one of the oldest girls could read
her a story. While she was wandering aimlessly searching for the unknown, Giada
got lost in the maze of rooms, doors and stairways. Now the night shadows were
frightening her; the only source of light was the moon
filtering through the windows.
Giada caught a glimpse of a china
vase, almost as tall as she was, and, when she realized she was in the hall, an
instinctive and uncurbed desire to cross that threshold filled her. It was late
winter, and it had been a long time since she had last walked through the
streets of Gozzano. She listened to herself and followed her crazy idea to
taste once more the freedom she had lost years before.
With her little hand she looked
for the keys that were always on a low shelf. She found them, she put them in
the key-hole and turned three times. She silently opened the door. She saw the
street covered with snow, the white roofs, the Christmas lights. Nobody was
there, the entire village was sleeping. She went down the stone steps and at
that moment she felt the icy cold that surrounded her. She started running to
get a bit warmer, forgetting the orphanage door open.
Around her all was new,
different, beautiful, but frightening at the same time. She didn’t know
anything about that unexpected world. And she was cold.
She stopped in front of
Mazzetti’s sweetshop. She had never seen or tasted pastries as delicious as the
ones shown in the shop window.
White snowflakes began to fall
down from the dark sky. She smiled and she felt happy like she had never been
before. She was free, light-hearted, she didn’t care about what Ms Bertelli
would say when she went back.
Wrapped up in her blanket, she
walked for a whole hour without stopping or perceiving that maybe she was going
too far.
She wasn’t used to long walks and
she felt tired. She sat down on the steps outside a house door, in one of the
dark side streets she had taken.
The cold pierced her bones, and
she thought that escaping hadn’t been a good idea. She missed her
little, warm bed.
She took the road again,
exhausted in the desperate searching of her origin.
Suddenly she saw a little shape
within a stone’s throw from her. It was a little dog, lost and cold. She tried
to call it, and it followed her, with an indescribable sensitivity.
By now her legs could not support
her. She could not feel her hands because they were numb with cold. She
trembled like a leaf while the dog was walking nearer and nearer. She hugged
him, stroking him and telling him about her wish to find a hidden past.
That pet had been abandoned as
she had, and maybe he felt the same feelings she did.
She whispered as she wanted to
comfort him: «Don’t worry. I’ll keep you with me». Giada had never felt responsible
for another life. So she was torn between going back to the orphanage and going
away for ever.
She needed a warm and safe refuge
for her and her puppy, but not the orphanage. After what she had done they
wouldn’t even let her stay with the other children, because hers would be a bad
example.
Besides, even the dog wouldn’t
have been happy because they wouldn’t have let her keep him. He needed Giada.
And she needed the little dog.
Suddenly she thought she couldn’t
give up: she didn’t know why mum and dad had abandoned her, but maybe if they
had seen her they would have accepted her and kept her with them to be a
family, at last. With that idea Giada’s hands quivered with emotion. For a while
she forgot the cold, the weariness and the fear. The mere thought of a happy
life made her excited.
She started running again keeping
the dog close to her chest. She passed many rows of houses looking for a sign,
something that conveyed her a deep emotion of belonging.
The houses were all similar and
with the dark she could not see much. Giada could not read even a name on the
entry phones. Blocks of flats and detached houses followed one another but she could
not feel the hoped feeling. The puppy, who was now walking by her side, did not
even whimper.
They roamed for a long time and
Giada was about to give up, when all of a sudden the dog started barking
loudly. They were in front of a huge house; the Christmas decorations lit it
and made it
enchanting. A very large garden
surrounded it and the girl noticed a small kennel.
The puppy was barking
incessantly, until Giada started thinking that it was not a coincidence. The
house did not make her remember anything, actually, but she started thinking
that it was her home in the past, and the dog wanted her to understand it.
She took him in her hands and,
after she had collected all the bravery she had in her body, she rang the bell.
However, she had to do it many times before someone decided to open.
A stout man who looked tired and
angry arrived. It took him some time before he understood that the bell had
been rung by a child: she was little, dressed with an outworn pyjama, weak and
pale. Giada let out a word she didn’t remember having ever said:
- Dad.
The man bowed his head to one
side and he burst into loud laughter. At that moment a woman peeped out from
the door. She seemed sleepy too. Giada called her “Mum”.
“I’m not your mother”, she said
“but the one you have in your arms is my dog. Good girl, you brought it back”.
Her tone wasn’t sweet at all, but surly and sarcastic.
The woman got closer to the gate
and leaned forward. She stretched out her arms. Giada, still shaken because of
what she had just learnt, found herself forced to give back the puppy, with whom
she had struck up a friendship, who had made her feel safe, who she had
whispered her fears, pains and secrets to.
She ran away in tears. How much
disappointment, how much regret!
Her legs implored her to stop,
but she didn’t listen to them. She ran again, until a noise stopped her. The
sound of small and fast steps accompanied by a subdued whimper.
It was the little dog. After
escaping again from his owners’ house, he had found her. Wagging his tail, he
hopped around her.
«Why did you return?», the little
girl asked, while tears sprang from her blue eyes. The pet, among his barking,
seemed to say: - Because I love you - .
Giada walked again, while the dog
followed her, happy. But this time she could not neglect the
exhaustion that was overwhelming
her. She decided to satisfy those poor, little, frozen feet.
Exhausted, she fell in a corner
of the street. She did not move anymore. Weariness caught her all of a sudden. The girl
and the dog did not make a sound anymore. The puppy curled up on her lap.
Her eyelids got heavy. Her eyes
shut and she could not prevent them.
The day after, a man was
impressed by a dog’s barking: he found the little girl’s body, lifeless. She had
passed away leaving behind her shoulders all the pain she had felt in the
years, but conscious that she had pursued a dream and known friendship.
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