venerdì 25 maggio 2012

PERCORSI

 PERCORSO 1 - PEDALA

1) GOZZANO: Tobruk
            “L'albero”
2) GOZZANO: Bemberg
            “L'omino della Bemberg”
            “Ricordo di un lavoro”
3) GOZZANO: Petroliera
            “L'amore nell'odio”
4) GOZZANO: Madonna di Luzzara
             “Per sempre”
5) S. MAURIZIO D'OPAGLIO: Lagna
            “La ragazza che parlava con i pesci”
6) GOZZANO: Lago d'orta
            “In ricordo di Ottorino Rondoni”
7) GOZZANO: Lido
            “Franco e il suo segreto”


PERCORSO 2 - PEDALA PEDALA

1) GOZZANO: Stazione
            “Occhi marroni”
2) GOZZANO: Località Buccione
            “Il mistero mai                 svelato”
3) BOLZANO NOVARESE: Centro
            “L'Angela Maria”
            “Bolzano Ingravo”
4) AMENO: Monte Mesma
            “La Madonna degli             Angeli”
            “Il tiglio”
            Lavatoio:
            “Un posto speciale”
5) ARMENO: Via Mottarone
            “Cammina, cammina...”
6) ARMENO: Lucciago
            “Parlando di ricordi”
7) MOTTARONE: Vetta
            “Il fantasma del                 Guglielmina”
            “Amore e pregiudizio”

PERCORSO 3 - CAMMINA

1) GOZZANO: Scuole
            “Il Maestro Strambo”
2) BUGNATE: Chiesa di S. Bernardo
            “Catena”
3) BUGNATE: Preja batizàa
            “Preja batizàa”
4) BUGNATE: Mulino
             “Mulino del sasso”
5) AUZATE: Madonna delle Grazie
            “Un regalo rosso corallo”
6) GARGALLO: Centro
            “Cucire e tagliare scarpe perfette”
7) GARGALLO: Centro
            “Il cantastorie”
8) BRIGA NOVARESE: Chiesa di S. Tommaso
            “Le streghe di S. Tommaso”
9) GOZZANO: Stazione
            “Un binario lungo 147 anni”
10) GOZZANO: S. Giuseppe
            “Nessuno deve essere solo”
            Santa Marta:
            “Il bastone magico”


IL MAESTRO STRAMBO


IL MAESTRO STRAMBO
di Magda Tamborini

Sono le 8:45 di un giovedì come tanti altri, sono seduta al mio banco di fianco alla finestra e sento le grida vivaci dei bambini delle elementari che giocano in cortile, quello stesso cortile di cui avevo sentito parlare da Enzio, un ex studente che mi aveva incantato giorni fa con le storie della sua infanzia. Guardo fuori e torno indietro nel tempo a quando invece di scarpe da ginnastica si portavano zoccoli e al posto di una maglietta una camicia scozzese. Mi accorgo che allora come oggi i bambini per giocare si accontentano delle piante, di un cortile e dei loro sorrisi. 
E' suonata la campanella alle elementari, tutti corrono verso una piccola porta antipanico e si rifugiano all'interno della scuola; il cortile torna vuoto.
Anche al Liceo suona la campanella e richiama la mia attenzione; ora dovrebbe arrivare la prof. e mi reco nel corridoio per prendere un'ultima boccata d'aria. Pochi minuti con alcuni compagni, tutti ammassati sulla porta fino a che spunta da dietro la curva la prof. Campanini con le sue borse, il suo passo deciso e il suo sorriso. Si dirige verso di noi.
La mia mente riavvolge il nastro del tempo ed eccolo là: con uguale compostezza e armonia il maestro Strambo (come lo chiamavano tutti, Maestro Gaudenzio Strambo) che si dirige verso la classe quinta mentre gli alunni si sono appena riuniti attorno ad un banco per organizzare una festa di fine anno.
Il bidello Marchini cammina per il corridoio consegnando il materiale per le lezioni, come oggi Maria Grazia distribuisce i fogli degli avvisi, con la stessa sveltezza e la stessa espressione felice.
C'era un bambino di nome Enzio che correva con gran foga per le vie di Gozzano con il sorriso sulle labbra: era in ritardo per la lezione! La campanella era suonata e tutti avevano cominciato il loro lavoro, tranne lui che come sempre sarebbe arrivato in ritardo di 10 minuti.
La prof. Campanini estrae la sua penna rossa  e chiede chi è assente; così il maestro faceva l'appello e tutti al suono del proprio nome rispondevano con consuetudine ed educazione: “Presente!”. Quando arrivava il nome “Enzio” la voce del maestro risuonava nell'aula, la porta si spalancava e quel bambino con le guance rosse e il respiro affannoso diceva: “Presente maestro, presente!” Il maestro lo rimproverava per il ritardo ma intenerito  dai suoi occhioni azzurri lo mandava a posto con un richiamo informale.
Vedo la professoressa che in ugual modo appunta il ritardo di una mia compagna.
La mattinata procedeva per il meglio, le ore passavano veloci e i bambini seguivano con attenzione la voce del maestro che leggeva, con voce ferma, un libro alla classe; guardavano il maestro con gli occhi luccicanti, mentre l'aria fresca entrava dalla finestra e trasmetteva agli alunni un senso di tranquillità che colpiva anche il bidello Marchini appena tornato dalle commissioni in posta.
Anche la mia mattinata scorre tranquilla mentre ascolto una  contorta spiegazione di latino, almeno per me. La campanella mi riporta nel mondo reale e mi affretto a fare lo zaino per non perdere il pullman.
Il suono squillante della campanella delle 12.00 riportava subito i bambini  del 1931 alla  diversa realtà della loro vita: giacca, cartella, pranzo e pomeriggio ad aiutare a casa, nei campi, con gli animali da pascolare o a imparare qualche mestiere. Ma ci fu un giorno speciale in cui, trascorsi pochi secondi, il maestro interruppe i loro pensieri con voce autorevole: “Bambini, oggi ci ritroviamo a scuola. Ho organizzato una sorpresa per voi, vi aspetto tutti alle 14:30”. Gli scolari accennarono un sì con la testa e corsero stupiti e impauriti a riferirlo a casa.
La prof. Ruga richiama la nostra attenzione per proporci un pomeriggio a scuola per il progetto "Connessioni", dice: "Ragazzi, per chi è interessato, domani pomeriggio lavoriamo sul progetto, chi vuole mi trova qui!". Sono contenta! Finalmente uno di quei pomeriggi che piacciono a me.
Il maestro Gaudenzio si diresse verso l'aula insegnanti dove c'era una piccola riunione per accordarsi sui colloqui con i genitori, perchè come diceva sempre “l'organizzazione è fondamentale per una completa efficienza degli insegnanti!”. I bidelli intanto pulivano i corridoi ormai sgombri dai bambini. Dopo circa un'oretta tutti erano usciti dalla scuola e il maestro Gaudenzio aveva chiuso le porte per poi recarsi in pasticceria con i suoi colleghi. C'erano la maestra Maffei, severa e decisa che ogni mattina veniva da Corconio in bicicletta, il maestro Torri, che viveva alla trattoria dell'attuale Albergo Italia, noto per le sue "rigate sulle mani" come ricordano Enzio e il suo amico Pierino, e la maestra Ceppi che aveva la V elementare femminile. Arrivati in pasticceria e ordinati i dolci il maestro pagò l'ordinazione fatta giorni prima per la festa a sorpresa che aveva organizzato per i suoi alunni di quinta.

Ed ecco che il pomeriggio seguente sono ancora a scuola, sono le 14:30, aspetto la prof, guardo fuori dalla finestra e di nuovo i bambini delle elementari fanno l'intervallo.
Le 14:30 e tutti gli alunni di quinta erano presenti nell'atrio della scuola, tranne Enzio che ovviamente era in ritardo, di 10 minuti. Il maestro con voce squillante richiamò gli alunni e li fece sedere a semicerchio contro le pareti, poi cominciò a parlare: “Bambini, io sono molto felice di essere stato il vostro maestro. Io ho insegnato a voi ma voi mi avete fatto imparare molte cose e mi avete soprattutto fatto ricordare la spensieratezza e l'allegria della vostra età! Quindi ora dirò una cosa che non molti sanno esprimere: GRAZIE! Adesso potrei concludere questo discorso con delle frasi molto complicate ma mi limiterò ad augurarvi una vita ricca di felicità, allegria, gioia e amore.”
Poi il maestro invitò i bambini a prendere ciò che era stato preparato su un tavolino al centro dell'atrio. I bambini, stupiti dalle parole ma soprattutto per la vista di dolci e bevande ringraziarono di cuore il maestro correndogli vicino e dandogli rispettosamente la mano.
Dopo aver divorato tutto, velocemente tornarono alle proprie case, con il sorriso sul volto e un appunto prezioso nel cuore.

Guardo fuori dalla finestra e osservo i bambini giocare tra le maestre che chiacchierano e mi sorge spontanea una domanda: "Avranno anche loro un maestro Strambo da ricordare?"

Perché di questo sono sicura, il maestro Gaudenzio Strambo è rimasto nel cuore dei suoi bambini. Infatti ancora oggi i suoi ex alunni lo ricordano con molta stima e affetto; il professor Enzio Ruga, in particolare, riportando, di generazione in generazione la storia di quel maestro eccezionale, mi ha fatto rivivere quei bei ricordi della sua infanzia e quegli insegnamenti e comportamenti morali validi in ogni tempo come se fossero "oro". Spesso il signor Enzio, ormai nonno, ricorda le parole che il maestro pronunciò e ringrazia a sua volta la vita stessa per le esemplari persone che ha incontrato.

Ispirato al racconto di E.Ruga sulla scuola elementare di Gozzano anni '30


IL BASTONE MAGICO - THE MAGIC STICK


IL BASTONE MAGICO
di Martina Marotta
tradotto da Virginia Fornara, Simona Mete, Erika Soldà

Tutto era silenzioso. Francesco, completamente perso nei suoi pensieri, era seduto nell'ultimo banco della chiesa di Santa Marta. Era uscito di casa prestissimo. Non era riuscito a dormire tutta la notte, e, attraversando le stradine di Gozzano, aveva deciso di recarsi lì per pregare. Dio non lo avrebbe aiutato a pagare i suoi debiti, ma per lo meno sarebbe stato in grado di dargli la forza di affrontare quella dura giornata. Infatti, il giorno dopo, un lunedì di metà luglio, sarebbe scaduta l'ultima rata del prestito. Se fosse riuscito a pagarla, la casa sarebbe diventata di sua proprietà. Aveva fatto tanti sacrifici, e adesso, a un passo dal raggiungimento di un sogno, tutto svaniva. I soldi non c'erano e la sua disperazione era più che giustificata.
La moglie lo aveva implorato di cercare un lavoro, ma non era semplice. In quei tempi di crisi nessuno aveva bisogno di dipendenti in più, semmai si potevano diminuire gli stipendi. Ma lo sguardo della sua triste consorte, deluso, amareggiato, rassegnato, gli stringeva il cuore. Perché non era in grado di rendere felice la sua famiglia? Cosa aveva fatto di sbagliato? Proprio niente. E i suoi piccoli? Loro soffrivano la fame molto più dei due genitori. Sarebbero rimasti poveri per sempre, non c'era nulla da fare.
I suoi tristi pensieri furono interrotti dall'entrata di un anziano signore all'interno della chiesa. Era un uomo sulla settantina, gracile, quasi calvo, con un' ispida barba bianca e le guance scavate. Si sorreggeva con l'aiuto di un lungo bastone nero, e portava con sé un buffo ed enorme ombrellone chiuso, colorato in modo molto vivace. Ai piedi, un paio di zoccoli di legno. Solo soffermandosi su quest'ultimo particolare, Francesco notò che al suo fianco c'era un ragazzino sui dieci anni, biondo, in apparenza tranquillo, ma dall'aria furbetta e vivace. Indossava le stesse calzature del vecchio.
Francesco si chiese cosa ci facessero in chiesa alle sei del mattino. Il vecchio gli si avvicinò, e gli disse:
-Percepisco sconforto nel tuo sguardo, giovane. Cosa ti turba?-
Dapprima Francesco guardò torvo lo sconosciuto. Poi si sfogò con lui parlandogli delle sue sventure.
L'uomo, che si chiamava Giuseppe, lo ascoltò comprensivo. Alla fine del racconto, rimasero in silenzio. Poi il vecchio parlò: -Sai una cosa? Questo bastone è magico-.
Francesco alzò un sopracciglio e a stento soffocò una risata.
Osservò l'espressione del bambino e notò con sollievo che anche lui appariva stupito dell'affermazione.
- Non prendetemi in giro, dico davvero! É in grado di portare soldi e fortuna! -
Detto questo gli porse il bastone nero. - Dopo aver seguito la mia Messa, vai a casa, usalo in maniera responsabile e torna qui domani per rendermelo. Ti darei il mio ombrello, possiede le stesse proprietà magiche, ma mi serve per proteggermi dal sole... -
Francesco seguì attentamente la Messa, celebrata dall'uomo, Padre Picco, aiutato dal bambino che gli faceva da chierichetto. I concetti che il vecchio dispensava erano pochi, ma di massima importanza e di grande spiritualità.
Francesco non credeva neanche a una parola di quello che P.Picco gli aveva detto, ma per farlo contento aveva preso l'oggetto, e il giorno dopo glielo avrebbe riportato.                
Una volta tornato a casa, Francesco appoggiò il bastone alla parete del salotto e tornò a dormire. Uno dei suoi due figli, svegliandosi e girando per casa, lo notò. La curiosità del piccolo superò la sua sonnolenza. Prese il bastone e cominciò a giocarci: prima fu una spada, poi lo scettro del re e infine una mazza da baseball. Per sbaglio colpì il vaso di vetro posto al centro del tavolo,  che cadde a terra frantumandosi in mille pezzi. Tanti piccoli pezzi, che però non erano più di vetro, bensì d'oro.
I genitori si svegliarono di soprassalto a causa del rumore avvertito. Ciò che li fece sbigottire non fu il vaso rotto, bensì il materiale di cui era realizzato. Il figlio diede loro delle spiegazioni, e a quel punto Francesco, confuso, raccontò alla moglie ciò che era successo quella mattina.
Fu così che la famiglia diventò ricchissima in una sola mattinata, grazie al bastone magico, in grado di moltiplicare soldi e trasformare tutto in oro.
Il giorno dopo Francesco non si presentò all'appuntamento con il vecchio.
Era intenzionato a tenersi il bastone magico, e mai, per nulla al mondo, lo avrebbe restituito al legittimo proprietario.
Possiamo dire con rammarico che l'uomo diventò avaro, e ogni giorno voleva sempre di più. La moglie era contrariata poiché il marito non riservava più le stesse cure e attenzioni alla sua famiglia. -Ormai avete di che mangiare - aveva detto, - dunque lasciatemi in pace -.
Una settimana dopo, Francesco si trovava nei pressi della chiesa di Santa Marta  "al gisin". Ritenne opportuno rendere omaggio a Dio, dopo che lo aveva aiutato.
All'ultimo banco, come se lo avesse atteso per sette giorni, c'era P.Picco.
Con lui non c'era il fedele chierichetto.
- Finalmente hai riportato ciò che è mio - disse con enfasi.
Francesco rise, beffardo. Quant'era cambiata la sua personalità!
- Non ci penso nemmeno - esclamò. - Non rinuncerò ai miracoli di questo oggetto. Per nulla al mondo-
- Davvero? Neanche per la tua famiglia compieresti questo sacrificio? Sai cos'è la penitenza? Sai cos'è l'umiltà? Ti sei scordato di tutto questo, Francesco, a causa della ricchezza che ti ha accecato. Quando ti ho visto, ho riconosciuto in te la povertà, lo sconforto, ho intravisto valori importanti che ora non ci sono più! Ti ho voluto aiutare e per questo dovresti essere grato a me, ma soprattutto a Dio! Vergognati, soprattutto perché hai fatto del male alla tua famiglia! - A quel punto alzò un dito e Francesco si ricordò di quell'immagine, come se l'avesse già vissuta. Gli venne in mente di averla letta in un libro, in un romanzo, forse, ma il titolo gli sfuggiva..
Quelle parole lo turbarono e lo fecero riflettere, ma non appena il vecchio abbassò il dito, girò sui tacchi e se ne tornò a casa, senza dire una parola.
Ma non c'era nessuno. L'abitazione era vuota. L'uomo fu preso dal panico. Tornò al "Gisin", da dove il vecchio non si era mosso.
- Dove sono? Che maledizione hai lanciato su di noi? - gli urlò.
L'altro, con tono pacato, gli suggerì di restituirgli il bastone e tutto sarebbe ritornato come prima.
Si guardarono negli occhi e Francesco capì l'umiltà, la bontà e la ricchezza d'animo che aveva colto nella predica della settimana prima. Il suo cuore ebbe un sussulto e, quasi meccanicamente, restituì il bastone al legittimo proprietario. I suoi abiti tornarono ad essere sgualciti e rattoppati e nel suo portafogli, neanche più un soldo.
Francesco, piangendo, corse via, e sussurrò un “grazie”, rivolto a P.Picco, ma soprattutto a Dio.
Arrivato a casa,  trovò la sua famiglia riunita intorno al tavolo della cucina umida. Non erano più ricchi come prima, ma qualche soldo era rimasto. Giusto il necessario per vivere nell'attesa di trovare un lavoretto. E la fortuna volle che proprio qualche giorno dopo Francesco trovasse un impiego presso un ristorante come cameriere. Finalmente, negli occhi della moglie vi erano orgoglio e soddisfazione.
Quanto imparò Francesco da quell'esperienza! E tutto lo dovette a Padre Picco, la cui santità e devozione verso Dio resteranno di esempio per tutti.

Ispirato alla figura di P.Picco, uomo di devozione e santità. Dal racconto di E.Ruga




THE MAGIC STICK

The church was peaceful. Francesco, deep in his thoughts, was seated in the last pew of Santa Marta's church. He had left home really early. He hadn’t managed to sleep all night and, walking along the side streets in Gozzano, he had decided to go there to pray. God wouldn't help him to pay all his debts, but at least he'd be able to give him the strength to face that hard day. In fact the day after, a mid-July Monday, the last instalment of his loan would expire. If he managed to pay it, his house would become his property. He had made so many sacrifices, and now, one step from achieving his dreams, all had disappeared. There wasn't any money and his despair was more than justified.
His wife had implored him to look for a job but it wasn't easy. In those times of crisis nobody needed employees, if anything they were reducing salaries. But the disappointed, grieved, resigned look of his sad wife wrenched his heart. Why wasn't he able to make his family happy? What had he done wrong? Nothing at all. And his children? They suffered hunger much more than the two of them. They would remain poor forever, there was nothing to do.
His sad thoughts were interrupted by the entrance of a slender, almost bald old man with a bristly white beard and hollow cheeks. He held himself up with the help of a long black stick, and he carried a funny, huge, closed, brightly coloured umbrella. On his feet a pair of wooden clogs. Dwelling on his last detail, Francesco noticed that beside him there was a boy of about ten, blond, apparently calm but with a crafty look. He wore the same footwear as the old man.
Francesco asked  himself what they were doing in the church at 6.00 a.m. The old man came close to him and said: - I perceive discouragement in your look...What troubles you?-
At first Francesco looked grimly at the stranger. Then he began to pour out his troubles and talk about why he looked so bad. The man, who was called Giuseppe, listened to him, understanding. At the end of the tale, they remained silent. Then the old man spoke: ''Do you know what? This stick is magic''.
Francesco lifted an eyebrow and just about managed to choke a laugh. He scrutinized the child's expression and noticed with relief that he seemed surprised by the statement, too.
- Don't make fun of me, I'm serious! It can bring money and luck. -
Having said that he gave him the black stick. - After attending Mass, go home, use it responsibly and come back here tomorrow to give it back to me. I'd give you my umbrella, it possess the same magic properties, but I need it to repair me from the sun.-
Francesco listened carefully to the Mass celebrated by Padre Picco, helped by the child that was his altar boy. The concepts that the old man preached were few, but of principle importance and of intense spirituality.
Francesco didn't believe a single word of what Padre Picco had said, but to make him happy he took the object and he would bring it back the day after.
Once he was back home, Francesco leaned the stick against the wall of the sitting-room, and he went to sleep. One of his children waking up and wandering around the house noticed it. The boy's curiosity overcame his sleepiness. He took the stick and he began playing: at first it was a sword, then the sceptre of the king and finally a baseball bat.
Accidentally he hit the glass vase in the middle of the table, that fell down and broke into a thousand pieces. Lots of little pieces: they were no longer made of glass but of gold.
The parents woke up with a start because of the noise they heard. What dismayed them wasn't the broken vase but the material it was made by. The son gave them explanations and Francesco, confused, told his wife what had happened that morning.
And that’s how the family became rich in only one morning, thanks to the magic stick that could multiply money and transform all into gold.
The day after Francesco didn’t turn up at the appointment with the old man. He intended to keep the magic stick, and never, for anything at the world, he would return it to the legitimate owner.
We can say with regret that the man became stingy, and every day he wanted more. His wife was annoyed since her husband didn’t have the same care and attention for his family any more. – You have enough to eat- he said- therefore leave me alone-
A week after, Francesco was near Santa Maria’s church. He thought it proper to honour God who had helped him. In the last pew, as if he had been waiting him for the past seven days, there was Padre Picco. The faithful altar boy wasn’t with him.
– At last you have brought back what is mine- he said with emphasis. Francesco laughed, scoffing. How much his personality had changed!
– I wouldn’t even think about it- he exclaimed – I won’t give up the miracles of this object. For nothing in the world.
 – Really? Not even for your family would you make this sacrifice? Do you know what penance is? Do you know what humility is? You forgot all about this, Francesco, because of the wealth that has blinded you. When I saw you, I recognized poverty and despair in you, I caught sight of important values that aren’t there any more! I wanted to help you and for this reason you should be grateful to me, but above all to God! Shame on you, especially because you’ve hurt your family!-
At that point he lifted a finger and Francesco remembered that image, as if he had already lived the moment. He remembered that he had read it in a book, in a novel, perhaps, but the title eluded him… These words troubled him and made him think, but as soon as the old man lowered his finger, he turned on his heels and went home without saying a word. But there was nobody. The house was empty. The man panicked. He went back to Santa Maria’s church, where the old man hadn’t moved.
– Where are they? What curse have you cast on us?- he shouted.
The other calmly suggested he should give back the stick, and everything would return as it was before. They looked into one another’s eyes and Francesco understood the humility, the kindness and the richness of spirit that he had heard in the sermon the week before. His heart gave a leap, and almost mechanically, he returned the stick to its rightful owner. His clothes returned to being patched and crumpled and his wallet without a penny.
Francesco, crying, ran away, and whispered a “thank you” to Padre Picco, but  above all to God. Upon arriving home, he found his family gathered around the table in the wet kitchen. They weren’t as rich as before, but some money was left. Just enough to live while waiting to find a job. And as fate would have it,  just some days later Francesco found a job as a waiter in a restaurant. At last, in his wife’s eyes there was pride and satisfaction.
How much Francesco learned from that experience! And he owed everything to Padre Picco, whose sanctity and devotion to God will remain an example for everyone.


NESSUNO DEVE ESSERE SOLO versione 2



NESSUNO DEVE ESSERE SOLO versione 2
di Federica Gussago 
L'orfanotrofio era silenziosissimo. Nell'aria non un solo ronzio o fruscio: tutta quella quiete era angosciante. Giada si strinse più forte alla copertina che aveva portato con sé. Lei era una bambina di soli dieci anni, con i capelli biondi, il corpo gracile, le guance scavate. Il suo viso era pallido e smunto, senza colore. I suoi occhi azzurri erano spenti, privi della vivacità tipica dell'infanzia.
Vagava per i corridoi dell'orfanotrofio, la sua casa da ormai sette anni. Il motivo per cui viveva lì le era stato spiegato più volte, ma ancora non riusciva a comprendere perché i suoi genitori avessero deciso di intraprendere un viaggio senza ritorno e di lasciarla sola, affidata alle cure di estranei. Quando aveva provato a chiederlo alla signorina Bertelli, la direttrice, lei aveva risposto che il mondo va così e bisogna abituarsi. Una risposta pessima da dare ad una bambina così piccola e ingenua. Così, inevitabilmente, Giada aveva cominciato a pensare che la mamma e il papà non le avessero mai voluto bene e che avessero voluto sbarazzare di lei.
Giada non era felice all'orfanotrofio, ma d'altronde, nessun bambino lo era, per quanta attenzione ricevesse.
Quella notte non le riusciva proprio di addormentarsi e così aveva preso a camminare per i corridoi bui dell'edificio. Era in cerca di qualcuno che la confortasse, magari una delle ragazze più grandi che le potesse leggere una fiaba, e girovagando senza meta alla ricerca dell'ignoto Giada si era persa nel labirinto di stanze, porte e scalinate. Ora le ombre della notte la impaurivano: l'unica luce presente era quella della luna che filtrava dalle finestre.
Giada intravide un vaso di porcellana alto almeno quanto lei e capì di trovarsi nell'ingresso e un desiderio istintivo e irrefrenabile di uscire da quella porta la pervase. Era inverno inoltrato ed era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva camminato per le stradine di Gozzano; ascoltò se stessa e seguì la sua idea folle di riassaporare la libertà perduta anni prima.
Con la manina cercò le chiavi che erano sempre appoggiate su una mensola bassa. Le trovò, le inserì nella toppa e girò tre volte. Silenziosamente aprì la porta. Vide le strade innevate, i tetti bianchi, le luci natalizie. Non c'era nessuno, tutto il paese dormiva. Prese a scendere gli scalini di pietra, e solo allora si accorse del freddo gelido che la circondava. Cominciò a correre per scaldarsi, dimenticando la porta dell'orfanotrofio aperta.
Tutto intorno a lei era nuovo, diverso, bellissimo, ma allo stesso tempo spaventoso. Non conosceva niente di quel mondo inaspettato. E aveva freddo.
Si fermò davanti alla pasticceria Mazzetti. Mai aveva visto o assaggiato prelibatezze simili a quelle in vetrina.
Fiocchi di neve candida cominciarono a cadere dal cielo scuro. Lei sorrise e si sentì felice come non lo era stata mai. Era libera, spensierata, non le importava nulla di ciò che le avrebbe detto la Bertelli una volta tornata indietro.
Avvolta nella sua coperta, camminò per un'ora intera senza fermarsi nè accorgersi che si stava allontanando troppo.
Non era abituata alle lunghe camminate e si sentiva stanca. Si sedette sui gradini di una porta, in una delle vie buie che aveva imboccato.
Il freddo le penetrava nelle ossa e cominciò a pensare che non era stata una buona idea quella di scappare. Rimpianse il suo lettino caldo.
Riprese a camminare, sfinita nella disperata ricerca della sua origine.
Improvvisamente, intravide una piccola figura a pochi passi da lei: era un piccolo cane, perso e infreddolito. Cercò di chiamarlo e lui, con un'indicibile sensibilità, la seguì.
Ormai le gambe non la sostenevano più. Non si sentiva più le mani, tanto erano intirizzite dal freddo. Tremava come una foglia mentre il cane le camminava sempre più vicino. Lo strinse a sé accarezzandolo e raccontandogli il suo desiderio di ritrovare un passato nascosto.
Quell'animale abbandonato come lei forse provava le sue stesse sensazioni.
Gli sussurrò, come se volesse rincuorarla: -Non preoccuparti, ti tengo con me-. Giada non si era mai sentita responsabile di un'altra vita. Era combattuta tra ritornare all'orfanatrofio e allontanarsi per sempre.
Aveva bisogno di un rifugio caldo e sicuro per lei e il cucciolo, ma non dell'orfanotrofio. Dopo il gesto che aveva compiuto non l'avrebbero nemmeno fatta rimanere con gli altri bambini, perché il suo sarebbe stato un cattivo esempio. Inoltre, nemmeno il cane sarebbe stato contento, non gliel'avrebbero lasciato tenere. Lui aveva bisogno di Giada. E lei del cagnolino.
Pensò che che non poteva rassegnarsi: non sapeva per quale motivo mamma e papà l'avessero abbandonata, ma, forse, se si fosse presentata a loro, l'avrebbero accettata e tenuta, per essere finalmente una famiglia. A quell'idea, le mani di Giada fremettero per l'emozione. Per un attimo dimenticò il freddo, la stanchezza, la paura. Il solo pensiero di una vita felice la rendeva entusiasta.
Riprese a correre, il cane stretto al petto. Superò tante file di case, alla ricerca di un segno, qualcosa che le trasmettesse un'emozione profonda di appartenenza.
Le abitazioni erano tutte uguali e con il buio si intravedeva poco. Giada non riusciva a leggere neanche un nome sui citofoni. Condomini e villette si susseguivano ma in nessuna riuscì a trovare la sensazione sperata. Il cagnolino, che adesso le camminava a fianco, non emetteva alcun suono.
Girarono a lungo, e Giada si stava arrendendo, quando, all'improvviso, il cane si mise ad abbaiare forte. Erano di fronte ad una casa imponente, gli addobbi natalizi la illuminavano e la rendevano incantevole. Un giardino molto vasto la circondava e la bambina notò una piccola cuccia per cani.
Il cucciolo continuava ad abbaiare senza sosta finchè Giada cominciò a pensare che non fosse un caso. L'abitazione in realtà non le ricordava nulla, ma cominciò a convincersi che quella un tempo fosse stata la sua casa e che il cane glielo volesse far capire.
Lo prese in braccio e, raccolto tutto il coraggio, suonò il campanello. Dovette ripetere il gesto parecchie volte prima che qualcuno si decidesse ad aprire.
Arrivò un uomo corpulento dall'aria stanchissima e adirata. Ci mise un po' prima di capire che a suonare era stata una bambina: piccola, vestita di un logoro pigiama, era gracile e pallida.
Giada si lasciò scappare una parola che mai si ricordava di aver pronunciato: -Papà-
L'uomo inclinò il capo da un lato rimandendo ad osservare la bambina, cercando di capire. C’era un qualcosa in quella creatura, così fragile. Un qualcosa che non riusciva a spiegarsi e che gli faceva passare quella rabbia che aveva dentro per l’inaspettata sveglia notturna.
Solo allora una donna fece capolino dall'uscio. Anche lei sembrava assonnata. Giada chiamò lei “mamma”.
-Io non sono la tua mamma- le disse. -Ma quello che hai in braccio è il mio cane. Lo hai riportato da me! -. Il suo tono era dolce, aveva gli occhi lucidi per la gioia di rivedere il suo cucciolo.
Si avvicinò al cancello con una sguardo protettivo e aprì a Giada, che per paura non osava entrare.  --come ti chiami piccolina? Cosa fai in giro tutta sola a quest’ora della notte?-
Il cane alla vista della padrona si divincolò dalla debole presa di Giada che era incantata ad osservare i minimi dettagli di quelle due persone, così sconosciute ma allo tempo stesso con quell’aria così familiare. Le sue gambe non la reggevano più in piedi, aveva freddo, era sfinita. Sentiva le braccia tremare e la testa girare, ma non ascoltava i segnali del suo corpo così come non ascoltava le domande della donna a pochi passi da lei.
Forse il freddo, forse la stanchezza e la debolezza. Sta di fatto che Giada perse i sensi e cadde ai piedi della donna. L’uomo che fino ad allora era rimasto sulla porta corse verso di lei e la raccolse prendendola in braccio, stringendola a lui e accorgendosi di quanto fosse fredda. Si rivolse alla moglie mentre già si dirigeva in casa. –Vieni portiamola dentro, prendile una coperta ed un cuscino.- La distesero con amore sul divano e accessero il camino lì vicino così da scaldarla il più possible.
Nessuno poteva rimanere impassibile davanti a quel visino giovane ma segnato da un passato indelebile.
Quando Giada riaprì gli occhi vide l’uomo e la donna sulle poltrone che dormivano. Non riusciva a capire dove fosse ma non voleva svegliarli. Era troppo stanca per alzarsi e decise di rimanere lì. “Non so dove sono, ma sono comoda” pensò. Sicuramente era una buona alternativa a quel freddo che penetrava le ossa.
Passò la notte e venne il mattino e raccontare cosa successe in quella casa quando tutti si svegliarono sarebbe troppo lungo. Possiamo dire però che nel frattempo l’orfanatrofio aveva già iniziato le ricerche di Giada, dopo non averla vista all’appello mattutino prima della colazione.
La notizia raggiunse anche i coniugi Valsesia (così si chiamavano le due anime buone che avevano accudito Giada durante la notte)  quando la preside Bertalli, nel suo giro disperato alla ricerca della bambina raggiunse la loro abitazione. La vista di Giada la rasserenò, i coniugi raccontarono l’accaduto e appresero la storia di quella bambina. Rimasero così colpiti che vollero iniziare subito le pratiche per l’adozione.
Giada ricevette il regalo di Natale più grande che potessero mai farle: una famiglia. Perchè nessuno merita di rimanere solo.

Ispirato al racconto di Martina Marotta "nessuno deve essere solo": il lieto fine lasciamolo almeno nelle storie!

NESSUNO DEVE ESSERE SOLO versione 1 - NOBODY SHOULD BE ALONE


NESSUNO DEVE ESSERE SOLO
versione originale di Martina Marotta
tradotto da Claudia Locci, Paola Poletti, Alice Vercelli

L'orfanotrofio era silenziosissimo. Nell'aria non un solo ronzio o fruscio: tutta quella quiete era angosciante. Giada si strinse più forte alla copertina che aveva portato con sé. Lei era una bambina di soli dieci anni, con i capelli biondi, il corpo gracile, le guance scavate. Il suo viso era pallido e smunto, senza colore. I suoi occhi azzurri erano spenti, privi della vivacità tipica dell'infanzia.
Vagava per i corridoi dell'orfanotrofio, la sua casa da ormai sette anni. Il motivo per cui viveva lì le era stato spiegato più volte, ma ancora non riusciva a comprendere perché i suoi genitori avessero deciso di intraprendere un viaggio senza ritorno e di lasciarla sola, affidata alle cure di estranei. Quando aveva provato a chiederlo alla signorina Bertelli, la direttrice, lei aveva risposto che il mondo va così e bisogna abituarsi. Una risposta pessima da dare ad una bambina così piccola e ingenua. Così, inevitabilmente, Giada aveva cominciato a pensare che la mamma e il papà non le avessero mai voluto bene e che avessero voluto sbarazzarsi di lei.
Giada non era felice all'orfanotrofio, ma d'altronde, nessun bambino lo era per quanta attenzione ricevesse.
Quella notte non le riusciva proprio di addormentarsi e così aveva preso a camminare per i corridoi bui dell'edificio. Era in cerca di qualcuno che la confortasse, magari una delle ragazze più grandi che le potesse leggere una fiaba. Girovagando senza meta alla ricerca dell'ignoto Giada si era persa nel labirinto di stanze, porte e scalinate. Ora le ombre della notte la impaurivano: l'unica luce presente era quella della luna che filtrava dalle finestre.
Giada intravide un vaso di porcellana alto almeno quanto lei e capì di trovarsi nell'ingresso e un desiderio, istintivo e irrefrenabile di uscire da quella porta, la pervase. Era inverno inoltrato ed era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva camminato per le stradine di Gozzano; ascoltò se stessa e seguì la sua idea folle di riassaporare la libertà perduta anni prima.
Con la manina cercò le chiavi che erano sempre appoggiate su una mensola bassa. Le trovò, le inserì nella toppa e girò tre volte. Silenziosamente aprì la porta. Vide le strade innevate, i tetti bianchi, le luci natalizie. Non c'era nessuno, tutto il paese dormiva. Prese a scendere gli scalini di pietra e solo allora si accorse del freddo gelido che la circondava. Cominciò a correre per scaldarsi, dimenticando la porta dell'orfanotrofio aperta.
Tutto intorno a lei era nuovo, diverso, bellissimo, ma allo stesso tempo spaventoso. Non conosceva niente di quel mondo inaspettato. E aveva freddo.
Si fermò davanti alla pasticceria Mazzetti. Mai aveva visto o assaggiato prelibatezze simili a quelle in vetrina.
Fiocchi di neve candida cominciarono a cadere dal cielo scuro. Lei sorrise e si sentì felice come non lo era stata mai. Era libera, spensierata, non le importava nulla di ciò che le avrebbe detto la Bertelli una volta tornata indietro.
Avvolta nella sua coperta, camminò per un'ora intera senza fermarsi nè accorgersi che si stava allontanando troppo.
Non era abituata alle lunghe camminate e si sentiva stanca. Si sedette sui gradini di una porta, in una delle vie buie che aveva imboccato.
Il freddo le penetrava nelle ossa e cominciò a pensare che non era stata una buona idea quella di scappare. Rimpianse il suo lettino caldo.
Riprese a camminare, sfinita nella disperata ricerca della sua origine.
Improvvisamente, intravide una piccola figura a pochi passi da lei: era un piccolo cane, perso e infreddolito. Cercò di chiamarlo e lui, con un'indicibile sensibilità, la seguì.
Ormai le gambe non la sostenevano più. Non si sentiva più le mani, tanto erano intirizzite dal freddo. Tremava come una foglia mentre il cane le camminava sempre più vicino. Lo strinse a sé accarezzandolo e raccontandogli il suo desiderio di ritrovare un passato nascosto.
Quell'animale abbandonato come lei forse provava le sue stesse sensazioni.
Gli sussurrò, come se volesse rincuorarlo: -Non preoccuparti, ti tengo con me-. Giada non si era mai sentita responsabile di un'altra vita. Era combattuta tra ritornare all'orfanatrofio e allontanarsi per sempre.
Aveva bisogno di un rifugio caldo e sicuro per lei e il cucciolo, ma non dell'orfanotrofio. Dopo il gesto che aveva compiuto non l'avrebbero nemmeno fatta rimanere con gli altri bambini, perché il suo sarebbe stato un cattivo esempio. Inoltre, nemmeno il cane sarebbe stato contento, non gliel'avrebbero lasciato tenere. Lui aveva bisogno di Giada. E lei del cagnolino.
Pensò che non poteva rassegnarsi: non sapeva per quale motivo mamma e papà l'avessero abbandonata, ma, forse, se si fosse presentata a loro, l'avrebbero accettata e tenuta, per essere finalmente una famiglia. A quell'idea, le mani di Giada fremettero per l'emozione. Per un attimo dimenticò il freddo, la stanchezza, la paura. Il solo pensiero di una vita felice la rendeva entusiasta.
Riprese a correre, il cane stretto al petto. Superò tante file di case, alla ricerca di un segno, qualcosa che le trasmettesse un'emozione profonda di appartenenza.
Le abitazioni erano tutte uguali e con il buio si intravedeva poco. Giada non riusciva a leggere neanche un nome sui citofoni. Condomini e villette si susseguivano ma in nessuna riuscì a trovare la sensazione sperata. Il cagnolino, che adesso le camminava a fianco, non emetteva alcun suono.
Girarono a lungo e Giada si stava arrendendo, quando, all'improvviso, il cane si mise ad abbaiare forte. Erano di fronte ad una casa imponente, gli addobbi natalizi la illuminavano e la rendevano incantevole. Un giardino molto vasto la circondava e la bambina notò una piccola cuccia per cani.
Il cucciolo continuava ad abbaiare senza sosta finchè Giada cominciò a pensare che non fosse un caso. L'abitazione in realtà non le ricordava nulla, ma cominciò a convincersi che quella un tempo fosse stata la sua casa e che il cane glielo volesse far capire.
Lo prese in braccio e, raccolto tutto il coraggio, suonò il campanello. Dovette ripetere il gesto parecchie volte prima che qualcuno si decidesse ad aprire.
Arrivò un uomo corpulento dall'aria stanchissima e adirata. Ci mise un po' prima di capire che a suonare era stata una bambina: piccola, vestita di un logoro pigiama, era gracile e pallida.
Giada si lasciò scappare una parola che mai si ricordava di aver pronunciato: -Papà-
L'uomo inclinò il capo da un lato. Scoppiò in una risata fragorosa. Solo allora una donna fece capolino dall'uscio. Anche lei sembrava assonnata. Giada chiamò lei - mamma.-
-Io non sono la tua mamma- le disse. -Ma quello che hai in braccio è il mio cane. Brava, lo hai riportato-. Il suo tono non era dolce, ma scontroso e sarcastico.
Si avvicinò al cancello e si sporse in avanti. Allungò le braccia. Giada, ancora scossa da ciò che aveva appena appreso, si vide togliere il cucciolo con cui aveva stretto amicizia, che l'aveva fatta sentire sicura, a cui aveva sussurrato le sue paure, dolori, segreti. In lacrime, corse via. Quanta delusione, quanto rammarico!
Le sue gambe la imploravano di fermarsi, ma lei non le ascoltava. Corse ancora, finchè un suono la bloccò. Un rumore di passi piccoli e velocissimi, accompagnati da un verso sommesso.
Era il cagnolino; scappato nuovamente dalla casa dei padroni, l'aveva ritrovata. Scodinzolando, le saltellò intorno. -Perché sei tornato?- chiese la piccola, mentre nuove lacrime spuntavano dagli occhi blu. L'animale, tra un abbaiare e l'altro, sembrò risponderle: -Perché ti voglio bene-.
Giada riprese a camminare, con il cane che la seguiva, contento. Questa volta, però, non potè più trascurare lo sfinimento che la opprimeva. Decise di accontentare quei poveri piedini congelati.
Esausta, si lasciò cadere in un angolo della strada. Non si mosse più. La stanchezza la colse all'improvviso. Sia lei che il cagnolino non produssero più alcun suono. Quest'ultimo le si posò in grembo.
Le palpebre le si appesantirono. I suoi occhi si chiusero senza che lei potesse impedirlo.
Il giorno seguente, un uomo fu colpito dall'abbaiare di un cane e trovò il corpo senza vita della bambina. Se ne era andata lasciandosi alle spalle tutto il dolore provato negli anni, consapevole solo di aver rincorso un sogno e aver conosciuto l'amicizia.

Ispirato alla esistenza dell'Istituto San Giuseppe casa di accoglienza per bambini orfani e scuola di avviamento anni '50. Dal racconto di A.Baldi



NOBODY SHOULD BE ALONE

The orphanage was silent. In the air there was no hum or rustle: all that stillness was distressing. Giada hugged the little blanket she had brought with her tighter. She was only ten years old; she had blond hair, a weak physique, hollow cheeks. Her face was pale and haggard, colourless. Her blue eyes were dull, without the typical brightness of childhood.
She roamed the orphanage corridors, her house for the past seven years. The reason why she lived there had been explained to her many times, but still she couldn’t understand why her parents had
decided to venture on a one-way trip and to leave her there, entrusted to strangers. When she tried to ask Ms Bertelli, the principal, she answered: «The world goes this way. We have to get used to it». It was an awful answer to give to such a little and naïve child. Unavoidably, Giada started thinking that her mom and dad had never loved her and that they wanted to get rid of her.
Giada wasn’t happy at the orphanage but, despite all the care they received, no child was.
That night she couldn’t fall asleep at all, so she had begun to wander the dark corridors of the building. She was seeking someone to comfort her; maybe one of the oldest girls could read her a story. While she was wandering aimlessly searching for the unknown, Giada got lost in the maze of rooms, doors and stairways. Now the night shadows were frightening her; the only source of light was the moon
filtering through the windows.
Giada caught a glimpse of a china vase, almost as tall as she was, and, when she realized she was in the hall, an instinctive and uncurbed desire to cross that threshold filled her. It was late winter, and it had been a long time since she had last walked through the streets of Gozzano. She listened to herself and followed her crazy idea to taste once more the freedom she had lost years before.
With her little hand she looked for the keys that were always on a low shelf. She found them, she put them in the key-hole and turned three times. She silently opened the door. She saw the street covered with snow, the white roofs, the Christmas lights. Nobody was there, the entire village was sleeping. She went down the stone steps and at that moment she felt the icy cold that surrounded her. She started running to get a bit warmer, forgetting the orphanage door open.
Around her all was new, different, beautiful, but frightening at the same time. She didn’t know anything about that unexpected world. And she was cold.
She stopped in front of Mazzetti’s sweetshop. She had never seen or tasted pastries as delicious as the ones shown in the shop window.
White snowflakes began to fall down from the dark sky. She smiled and she felt happy like she had never been before. She was free, light-hearted, she didn’t care about what Ms Bertelli would say when she went back.
Wrapped up in her blanket, she walked for a whole hour without stopping or perceiving that maybe she was going too far.
She wasn’t used to long walks and she felt tired. She sat down on the steps outside a house door, in one of the dark side streets she had taken.
The cold pierced her bones, and she thought that escaping hadn’t been a good idea. She missed her
little, warm bed.
She took the road again, exhausted in the desperate searching of her origin.
Suddenly she saw a little shape within a stone’s throw from her. It was a little dog, lost and cold. She tried to call it, and it followed her, with an indescribable sensitivity.
By now her legs could not support her. She could not feel her hands because they were numb with cold. She trembled like a leaf while the dog was walking nearer and nearer. She hugged him, stroking him and telling him about her wish to find a hidden past.
That pet had been abandoned as she had, and maybe he felt the same feelings she did.
She whispered as she wanted to comfort him: «Don’t worry. I’ll keep you with me». Giada had never felt responsible for another life. So she was torn between going back to the orphanage and going away for ever.
She needed a warm and safe refuge for her and her puppy, but not the orphanage. After what she had done they wouldn’t even let her stay with the other children, because hers would be a bad example.
Besides, even the dog wouldn’t have been happy because they wouldn’t have let her keep him. He needed Giada. And she needed the little dog.
Suddenly she thought she couldn’t give up: she didn’t know why mum and dad had abandoned her, but maybe if they had seen her they would have accepted her and kept her with them to be a family, at last. With that idea Giada’s hands quivered with emotion. For a while she forgot the cold, the weariness and the fear. The mere thought of a happy life made her excited.
She started running again keeping the dog close to her chest. She passed many rows of houses looking for a sign, something that conveyed her a deep emotion of belonging.
The houses were all similar and with the dark she could not see much. Giada could not read even a name on the entry phones. Blocks of flats and detached houses followed one another but she could not feel the hoped feeling. The puppy, who was now walking by her side, did not even whimper.
They roamed for a long time and Giada was about to give up, when all of a sudden the dog started barking loudly. They were in front of a huge house; the Christmas decorations lit it and made it
enchanting. A very large garden surrounded it and the girl noticed a small kennel.
The puppy was barking incessantly, until Giada started thinking that it was not a coincidence. The house did not make her remember anything, actually, but she started thinking that it was her home in the past, and the dog wanted her to understand it.
She took him in her hands and, after she had collected all the bravery she had in her body, she rang the bell. However, she had to do it many times before someone decided to open.
A stout man who looked tired and angry arrived. It took him some time before he understood that the bell had been rung by a child: she was little, dressed with an outworn pyjama, weak and pale. Giada let out a word she didn’t remember having ever said:
- Dad.
The man bowed his head to one side and he burst into loud laughter. At that moment a woman peeped out from the door. She seemed sleepy too. Giada called her “Mum”.
“I’m not your mother”, she said “but the one you have in your arms is my dog. Good girl, you brought it back”. Her tone wasn’t sweet at all, but surly and sarcastic.
The woman got closer to the gate and leaned forward. She stretched out her arms. Giada, still shaken because of what she had just learnt, found herself forced to give back the puppy, with whom she had struck up a friendship, who had made her feel safe, who she had whispered her fears, pains and secrets to.
She ran away in tears. How much disappointment, how much regret!
Her legs implored her to stop, but she didn’t listen to them. She ran again, until a noise stopped her. The sound of small and fast steps accompanied by a subdued whimper.
It was the little dog. After escaping again from his owners’ house, he had found her. Wagging his tail, he hopped around her.
«Why did you return?», the little girl asked, while tears sprang from her blue eyes. The pet, among his barking, seemed to say: - Because I love you - .
Giada walked again, while the dog followed her, happy. But this time she could not neglect the
exhaustion that was overwhelming her. She decided to satisfy those poor, little, frozen feet.
Exhausted, she fell in a corner of the street. She did not move anymore.  Weariness caught her all of a sudden. The girl and the dog did not make a sound anymore. The puppy curled up on her lap.
Her eyelids got heavy. Her eyes shut and she could not prevent them.
The day after, a man was impressed by a dog’s barking: he found the little girl’s body, lifeless. She had passed away leaving behind her shoulders all the pain she had felt in the years, but conscious that she had pursued a dream and known friendship. 

UN BINARIO LUNGO 147 ANNI


UN BINARIO LUNGO 147 ANNI
di Federica Gussago

Un viaggio veloce, diverso, forse impossibile.  Non una meta, ma una storia.  La storia di una ferrovia.

Marzo  1864. Lo sbuffo bianco che produce il mio respiro assomiglia al fumo bianco del treno a vapore. Sono a Novara, prendo la mia valigia, salgo sul treno. Pigiata nella carrozza con altre trenta persone arrivo a Gozzano e vedo intorno a me un paese diviso in due. Sette passaggi a livello e campi coltivati a grano un po’ di qua, un po’ di là.
“Gozzano, stazione di Gozzano!”

Settembre 1888. Grande emozione. Sono una delle prime passeggere del treno che ora raggiunge anche Domodossola. La ferrovia è stata ampliata.
“Gozzano, stazione di Gozzano!”

Novembre 1969. Oh che confusione oggi in treno! Tumulto, vociare. Sento qualche parola del discorso di due uomini grandi, vestiti in giacca e cravatta. Pare che l’amministrazione ha inserito una rettifica al tracciato ferroviario nel piano regolatore. Nelle condizioni ho sentito che vogliono modificare anche, di conseguenza, il tracciato del raccordo Bemberg. Santa Bemberg! Lei non si tocca.
“Gozzano, stazione di Gozzano!”

Novembre 1977. Sono seduta tranquilla sulla banchina, sto aspettando il treno. Leggo il mio libro preferito “Orgoglio e pregiudizio” forse per la quarta volta, ma sono distratta. Si sta avvicinando un treno, non il mio. Non è come quelli che vedo ogni giorno. È un treno della linea Oriente Express.  Forse faccio in tempo a salire. Che bello vado a Istanbul! Aspetta, non si ferma. Che peccato.
“Gozzano, stazione di Gozzano!”

2000. Vi ricordate quella storia della modifica della ferrovia? Sembra che tutto ora dipenda dai soldi. Una mia cara amica ha sentito dire dal fidanzato di sua cugina, che ha sentito dire dal fratello della segretaria comunale, che il sindaco Testori ha firmato un accordo per dividere le spese, decisamente elevate, tra regione, provincia, comune e la Rete Ferroviaria Italiana. Non credo funzionerà.
“Gozzano, stazione di Gozzano!”

11 novembre 2008. Ho letto sull’Informatore una notizia molto positiva. A Roma è stato firmato l’accordo definitivo di programma per la modifica del tracciato della ferrovia di Gozzano. Magari il paese tornerà unito. Solo utopia?
“Gozzano, stazione di Gozzano!”

Aprile 2009. Sto andando dal panettiere. Aspetta è cambiato qualcosa. Hanno aperto un cantiere!
“Gozzano, stazione di Gozzano!”

5 dicembre 2011. Il sogno è diventato realtà. Il paese è unito, basta passaggi a livello come barriere divisorie. Seduta su una banchina, tutt’intorno una stazione che profuma ancora di nuovo. Eccolo, il primo treno del nuovo tracciato.

Ispirato all'inaugurazione della nuova Stazione Ferroviaria di Gozzano: dicembre 2012

LE STREGHE A SAN TOMMASO


LE STREGHE A SAN TOMMASO
di Giulia Fabiani

Mentre il sole si nascondeva nel crepuscolo e la luna entrava in scena nel cielo oramai dipinto di rosso, un giovane contadino, troppo stanco per affrontare: il lungo ritorno a casa, decise di riposarsi sotto la folta chioma della quercia centenaria nei pressi della chiesa eretta in onore di San Tommaso, nella campagna di Briga Novarese. Senza il tempo di rendersene conto si addormentò, esausto e ignaro di ciò che da lì a poco sarebbe successo.
Nell’aria quella sera aleggiava una strana sensazione di mistero e il vento portava con sé un dolce profumo di fiori e miele. Il bosco vicino sembrava animarsi coperto da stelle luminose scese come testimoni di ciò che stava per accadere. Ad un tratto il contadino fu svegliato da una luce abbagliante che fluttuava davanti a sé.
Ancora assopito non riuscì a capire cosa stesse succedendo quando questa luce si materializzò in una splendida figura umana di donna. Il suo viso era contornato da lunghi capelli ramati con piccoli fiori turchesi sparsi sulla chioma; aveva bellissimi occhi verdi che brillavano colmi di magia e curiosità e la sua bocca era di un rosso vermiglio con labbra pronunciate e morbide. Si avvicinò a lui sussurrandogli parole incomprensibili ma ne rimase fortemente attirato al punto che si alzò, e andò con lei davanti all’entrata della chiesa. Lei, guardando il bosco, fece un cenno con la mano e dal nulla uscirono strani personaggi, animali parlanti e uomini alti meno di un metro, simili a gnomi.
Si avvicinarono al giovane spaventato, ma con aria tranquilla e rassicurante gli fecero capire che non doveva temere nulla e lo invitarono a seguirlo fino alla fontana di San Tommaso. Giunti alla fonte si misero seduti e attesero per quasi mezz’ora ma al contadino parve un’eternità. Poi notò che la fanciulla dai capelli ramati guardava verso un angolo del cielo e dopo pochi istanti apparvero volteggiando alcune donne avvolte in mantelli dei colori della notte.
I loro volti erano pallidi con strani disegni ai bordi degli occhi, le loro labbra sussurravano filastrocche in una lingua sconosciuta.
Si avvicinarono alla fanciulla e l’abbracciarono così come il resto del gruppo. Alla fine dei loro rituali presero il contadino per mano e si avvicinarono alla fonte. Dalle loro mani uscirono polveri luccicanti e colorate che caddero nella fonte; a quel punto l’acqua si tinse di un intenso blu. Tutti iniziarono a dissetarsi con quest’acqua; tutto sapeva di paradiso. Il giovane prese parte con le streghe, o forse fate, a danze semplici, dolci e selvagge nello stesso tempo, fino allo sfinimento. E si assopì ai bordi della fonte. Le magiche donne lo sollevarono e lo riportarono sotto alla quercia centenaria. E così, come erano arrivate, sparirono.
Alle prime luci dell’alba il contadino si destò sorridendo, convinto di aver fatto un bellissimo e stravagante sogno; si alzò e si accorse che ai suoi piedi c’erano due bellissimi fiori turchesi e rimase di sasso. Nei giorni successivi non fece altro che pensare all’accaduto recandosi più volte alla chiesa di San Tommaso senza trovare una risposta alla martellante domanda.. "Sogno o realtà?

Ispirato ad una leggenda che racconta di magici incontri di streghe che scendono da Invorio verso Briga Novarese per incontrarsi alla fontana di San Tommaso in Briga.